La Francia ed i baffi, storia di una liaison intramontabile

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Una digressione su una passione dura a morire e che ancora oggi vive nei cuori e sulle labbra dei nostri cugini francesi

Popoli latini popoli baffuti e non sono da meno neppure i nostri tanto amati/odiati cugini francesi che, quanto a mustacchi, rientrano a buon titolo nella nostra irsuta famiglia. Di stereotipi sulla Francia ed i baffi ce ne sono infatti parecchi, a cominciare ad esempio dalla classica iconografia che vorrebbe tutti i maschi vestiti con magliette a righe, foulard, basco, baguette rigorosamente sotto l’ascella ed immancabili baffetti arricciati all’insù.

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La pubblicità di alcuni prodotti venduti in Germania e spacciati come francesi al 100% a riprova di quello che diciamo.

Un cliché duro a morire e su cui i nostri stessi vicini sembrano giocarci ed è facile intuirne il perché. L’estensione pilifera sopra le labbra, che come abbiamo visto in molte culture è sinonimo di mascolinità e vigore, avrebbe dei precedenti storici molto importanti affondando le radici addirittura ai tempi dei celti. È ampiamente documentato che i Galli, nome con cui li chiamavano i romani, sfoggiassero sempre bei baffoni folti come del resto è riscontrabile leggendo le cronache degli storici, tra tutti Cesare quando descrive Vercingetorige, o tuffandosi anche nella cultura pop odierna. I protagonisti di Asterix e Obelix ne sono l’esempio lampante viste tutte le loro avventure contro i “glabri” romani.

È curioso vedere, in tal senso, come nel corso dei secoli questa tradizione sia sopravvissuta alle invasioni barbariche con due esempi lontani nel tempo ma comunque abbastanza eloquenti. A portare i baffi furono infatti sia il franco Carlo il Calvo (823 – 877), che lo stesso Luigi XIV. È molto comune infatti incontrare ritratti giovanili del Re Sole con dei barbigi fini e nerissimi, segnale di una frenesia da non sottovalutare sotto le lenzuola.

Baffi, politica e comando sembra essere quindi un argomento abbastanza fertile nella storiografia francese come dimostra largamente tutto il primo periodo post monarchico: dalla rivoluzione francese sino alla quarta repubblica (1958) sono il tratto distintivo di tutta, o quasi, la classe dirigente transalpina tra presidenti, capi di governo e ministri vari. Con le elezioni presidenziali francesi appena finite e la conseguente incoronazione di Macron non possiamo quindi che ripercorrere la storia dei presidenti più irsuti, e secondo noi meritevoli di menzione, della storia di Francia.

Cominciamo quindi con Napoleone III, primo ed unico presidente della Seconda Repubblica (1848 – 1852) nonché unico imperatore del così detto Secondo Impero (1852 – 1871). Personaggio contradditorio, aderì durante l’esilio italiano alla Carboneria per poi rinnegarla una volta al potere in Francia pur di non scontentare il proprio elettorato cattolico, estremamente contrario alla perdita del potere temporale dello Stato Pontificio. Ancora oggi Parigi gli deve parte della sua urbanistica visto che ne affidò al barone Hausmann l’ammodernamento, ma più per ragioni pratiche che per filantropia: memore delle tante rivoluzioni (quella del 1789, quella del luglio 1830 quindi i moti del 1848) che avevano fatto e disfatto scalate al potere, compresa la sua, creò i famosi ed immensi boulevard per scoraggiare la creazione di barricate e qualsiasi tipo di guerriglia urbana.

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Napoleone III

Decisamente ambivalenti i suoi rapporti con l’Italia ed il nostro Risorgimento: se da un lato l’anarchico Orsini cercò di ucciderlo per il suo appoggio al papato (1858 all’Opéra), dall’altro, in un incontro segreto con Cavour, appoggiò la Seconda Guerra di Indipendenza in chiara funzione anti austriaca.

Molto peggiori invece le relazioni coi tedeschi, come del resto vuole la tradizione dai tempi di Carlo Magno, che finirono col creare le premesse dei due conflitti mondiali del ‘900. Fu infatti proprio la sconfitta francese nella guerra franco – prussiana (1870 – 1871), iniziata nel disperato tentativo di contenere l’espansionismo di Bismark, a decretarne la caduta, l’esilio ed il revanchismo transalpino durante il Trattato di Versailles (1919), con le conseguenze che tutti ben conosciamo.

Tramontante per sempre le velleità imperiali e chiusa nel sangue la parentesi della Comune di Parigi si apre quindi la Terza Repubblica, destinata a durare sino al 1940. Un momento che pur rappresentando l’apogeo della cultura francese ebbe anche molte luci ed ombre. Se con l’impressionismo, il verismo, il realismo pittorico di Courbet o l’esperienza del Proust – entrambi ben forniti di vello sub nasale – si raggiungeva l’apice non si può dire lo stesso sotto il punto di vista politico: governi instabili, cacce alle streghe, anticlericalismo ottuso e le contraddizioni di una società industriale, come racconta Celine nel “Viaggio al termine della notte”, impossibile da inquadrare e da capire per chi ne viveva la quotidianità.

Abbandonate finalmente le sbornie insurrezionali il barbigio torna imperiosamente di moda con ben 8 presidenti a portarlo su un totale di 14: Patrice de Mac Mahon, Sadi Carnot, Jean Casimir –Perier, Félix Faure, Paul Deschanel, Alexandre Millerand, Gaston Doumergue, Paul Doumer e infine Albert Lebrun.

Non potendo però tediare il lettore e fargli crescere la barba dalla noia, ci siamo permessi di selezionarne tre che per noi meritano una menzione speciale. Il primo di questi, Félix Faure, presidente dal 1895 al 1899, morì durante il proprio mandato per una sessione fatale con la sua amante Marguerite Steinheil. Sembra infatti che monsieur le Président sia spirato durante una fellatio non solo particolarmente intensa, a riprova del legame col vigore sessuale, ma anche entrata nella storia: visto lo scandalo il cinismo del popolo e dei suoi avversari mise in giro freddure indimenticabili. Tra tutte ricordiamo l’appellativo dato alla sventurata de “la pompe funèbre” o il famoso calembour (gioco di parole) “volle vivere come Cesare, morì come Pompeo” impostato sull’assonanza tra il condottiero romano ed il participio passato del verbo “pomper”, pompato.

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Félix Faure. Il celebre “J’accuse monsieur le Président” di Zola fu rivolto proprio a lui durante il caso Dreyfus.

Morte in medias res, ma per motivi meno piacevoli, anche per Paul Doumer. In carica per meno di un anno (1931 – 1932), ebbe un cursus honorum di prim’ordine nonostante le umili. Ad aiutare una carriera così fulminante l’appartenenza alla massoneria, che però abbandonò dopo l’affaire des fiches (1900 – 1904), uno scandalo nazionale che mostrò per la prima volta la penetrazione delle società segrete nella classe dirigente: in piena rottura con la chiesa transalpina le logge, su ordine delle prefetture, stilarono liste di proscrizione per indicare chi fosse meritevole o meno di emarginazione sociale. Particolare la sigla VLM, letteralmente “va à la messe” (va a messa) per stroncare chiunque fosse visto come troppo religioso. A spezzare la sua, di carriera politica, fu invece un attentato da parte di un fascista russo, Paul Gourgulov, con trascorsi nell’Armata Bianca e che lo accusò senza mezze misure di non aver combattuto il bolscevismo, con un richiamo evidente alla nostra teoria tra il fascismo e l’avversione per il pelo.

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Paul Doumer

Più fortunato, ma ugualmente travagliato, il destino del suo successore Albert Lebrun. Fu l’unico, oltre a Jules Grevy, ad essere rieletto per un secondo mandato (’32 – ’39 il primo, ’39 – ’40 il secondo) ma la sua presidenza fu forse la più turbolenta di tutte: supplicato di rimanere all’Eliseo, per dare un segnale di stabilità con la guerra alle porte, non riuscì ad evitare l’invasione tedesca il secondo armistizio di Compiègne (1940) e la fondazione della Repubblica di Vichy.

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Albert Lebrun

Mai come nel periodo collaborazionista i destini di Francia dipesero dai baffi: tanto Pétain, il suo secondo Laval e de Gaulle erano caratterizzati da barbigi importanti per quanto diversi: folti ed ottocenteschi quelli del Maresciallo, asciutti e popolari quelli del suo vice mentre a sigaretta, quasi in punta di piedi, per il Generale della Francia Libera. Saranno proprio questi ultimi ad avere la meglio ponendo le basi del Paese che conosciamo: ancora oggi tutta la politica francese è caratterizzata dai toni, ma non dai principi, lasciati in eredità dal padre del gollismo.

Finita la guerra de Gaulle traghettò un Paese in ginocchio tra quarta e quinta Repubblica, capendo quale fosse il ruolo che la Francia doveva occupare nel mondo: sua la teorizzazione dello Stato Nazionale, della Françafrique, l’indipendenza dalla Nato e dall’Urss in piena guerra fredda e via discorrendo. Ma numerose anche le critiche per l’indipendenza dell’Algeria e l’abbandono dei coloni francesi, i pieds noirs, al loro destino. Tanto che l’OAS tentò di eliminarlo in più di un’occasione.

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In ordine: Philippe Pétain, Pierre Laval e Charles de Gaulle in una delle sue foto più famose.

Sebbene una volta entrato in politica abbia abbandonato i baffi ancora oggi l’iconografia ufficiale tende a ricordarlo come padre della patria più con le foto degli anni ’40, in divisa e mustacchi, che durante i suoi incarichi ufficiali da capo di Stato sbaffato. Capire cosa abbia spinto a rasarsi il Grande Asparago, soprannome dovuto alla sua altezza ed alla fronte alta, è impossibile ma alcuni teorizzano che si sia lasciato influenzare dai suoi vecchi alleati, in particolare del mondo americano, sbarbati sino all’irritazione nell’ottuso tentativo di sembrare più giovani. Uomo misurato in tutto e decisamente meno priapesco dei suoi predecessori si dice che abbia tradito una volta sua moglie Yvonne, e cioè al cospetto di Jaqueline Kennedy, ma solo con il pensiero. Chissà come sarebbe finita se avesse potuto mostrare il proprio vigore con un bel baffo di primo impatto.

Dopo di lui più nessuno coltiverà questa tradizione segno, forse, di un’anglicizzazione eccessiva. L’attuale presidente Macron ne è forse l’esempio più lampante e rappresenta bene questa sorta di compromesso storico tra le destre e le sinistre in salsa francofona: nessuno infatti, con l’eccezione dello squallidissimo neo primo ministro barbuto Philippe, coltiva la peluria come si deve.

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In ordine: Daniel Auteuil – L’ultima missione, Dany Boon – Niente da dichiarare, Alain Delon – I senza nome, Vincent Cassel – Mesrine.

Ma le mode di queste classi dirigenti sembrano comunque non attecchire all’interno della società: ancora oggi tutto il sostrato francese è caratterizzato da una baffizzazione difficile da sradicare. Chi per esempio ha girato la Francia profonda più lontana da Parigi e dai suoi eccessi ha potuto sicuramente vedere come giovani e meno giovani non abbiano intenzione di tagliare le proprie radici pilifere con vere e proprie riscoperte all’insegna della Tradizione. Tanti gli esempi cinematografici in tal senso come il poliziotto di provincia interpretato da Daniel Auteuil ne “L’ultima Missione” (MR 73, 2008), il criminale Mesrine di Vincent Cassel (Nemico Pubblico N.1 – L’istinto di morte e L’ora della fuga) il celebre polar con Alain Delon “I senza nome” (Le cercle rouge 1970) o infine la commedia di Dany Boon “Niente da dichiarare” (“Rien à declarer” 2010). Stesso discorso per la musica con Francis Cabrel, Georges Brassens, Jean Ferrat, Cristophe, Gérard Blanc, Khaled, Pierre Vassiliu o Johnny Hallyday oltre ad un nume tutelare, e fonte di eterna ispirazione, come Gérard Depardieu che nel corso degli anni ci ha fatto innamorare di tutti i suoi eccessi alcolici e femminili sempre all’insegna del baffo.

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In ordine i cantanti Cristophe, Francis Cabrel, Georges Brassens, Gérard Blanc, Pierre Vassiliu, Khaled che va menzionato nonostante le sue origini algerine, Johnny Hallyday ed il nostro genius loci Gèrard Depardieu.

Lo spirito del popolo è duro a morire e resiste a tutto. E allora sì, possiamo dirlo con parole loro “vive le poil, vive la France et vive le moustache” e ghigliottina a tutti gli sbaffati!

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